Pace si dice
in molti modi, tanto diversi ed equivoci da far pensare anche al suo contrario.
Si comprende bene a queste
latitudini mediterranee.
In Italia, giusto per
esemplificare, è da anni in corso una guerra.
Una guerra civile – perché
interna ai confini e attuata ai danni di una parte specifica della popolazione
–, spettrale – perché non apertamente dichiarata –, odiosa e discriminatoria –
poiché del “nemico” si predicano caratteristiche infamanti, tra le quali l’essere-fannullone –, ideologica – in
quanto condotta all’insegna del più rozzo neoliberismo –, giusta – perché invocata in nome di un’ineffabile entità (l’Europa,
nell’accezione Draghi-Trichet) – e falsamente necessaria – il che implica la pretesa di espungere l’elemento
contingente proprio della politica, allo scopo di ridurla a semplice
automatismo tecnico al servizio del capitale –.
L’obiettivo principale da
abbattere è il lavoro, più specificamente il pubblico impiego: sanità,
istruzione etc., vale a dire i servizi presso cui si riproducono le forze
materiali più preziose, critiche e colte del Paese (del Continente), quelle maggiormente
politiche, nel senso pregnante del termine.
Le casematte di coloro che
hanno deciso di resistere a simili derive entropiche - studenti, insegnanti, operai, precari dei diversi settori etc. - sono disseminate ovunque: sono
angusti e bui locali personalizzati (i piccoli interessi parziali in cui è frammentata la società) da sottrarre
all’isolamento reciproco per costituire un fronte compatto del lavoro. E' quanto ci si aspetterebbe da una seria forza di sinistra. Se i
tempi attuali non fossero segnati da un lessico politico approssimativo, si
dovrebbe parlare di lotta per l’egemonia.